La fotografia premiata al World Press Photo 2025 ci pone di fronte a una realtà angosciante: un bambino mutilato - Mahmoud Ajjour - testimone vivente delle atrocità di una guerra che segna le generazioni. L'emblema e la rappresentazione plastica di come le immagini, più che le parole, molto spesso definiscono la nostra comprensione del mondo. È...
L’empatia distante: l’estetica del dolore e il vuoto a perdere dell’azione
La fotografia premiata al World Press Photo 2025 ci pone di fronte a una realtà angosciante: un bambino mutilato - Mahmoud Ajjour - testimone vivente delle atrocità di una guerra che segna le generazioni. L'emblema e la rappresentazione plastica di come le immagini, più che le parole, molto spesso definiscono la nostra comprensione del mondo. È impossibile non esserne colpiti, almeno per un momento. Ma dopo... Facciamoci tre domande! Cosa succede dopo quel momento? È sufficiente osservare per provare empatia? O stiamo semplicemente consumando il dolore come un altro prodotto mediatico? Proviamo a parlarne qui.

L'emozione: l'estetica del dolore
Dal punto di vista emotivo, queste immagini toccano corde profonde. Ci costringono a confrontarci con l'orrore, ci mettono di fronte a ciò che preferiremmo non vedere. È una sensazione che ci scuote, ma spesso si dissolve rapidamente nel ritmo frenetico delle nostre vite. Questo perché l'empatia, per quanto sincera, è effimera se non è accompagnata da un'azione concreta. Esiste anche un rischio perverso: che la bellezza intrinseca della fotografia trasformi il dolore in qualcosa di "estetico," rendendo più facile osservarlo, ma anche, in un certo senso, sminuirlo.
Il sociale: la spettacolarizzazione della sofferenza
Sociologicamente, queste immagini riflettono una dinamica di potere. Chi vive nei privilegi del mondo sviluppato guarda al dolore dell'altro da una posizione di sicurezza. L'immagine diventa una finestra, ma anche uno schermo: siamo spettatori, non partecipanti. Questa distanza emotiva può portare a una sorta di anestesia morale, dove l'orrore diventa solo un altro spettacolo. Nel contesto dei media, la sofferenza viene spesso sfruttata per generare clic, vendere storie, guadagnare premi. È qui che si rischia di perdere la profondità e l'umanità del messaggio.
La psicoanalisi: il senso di colpa e la catarsi
Dal punto di vista psicoanalitico, l'osservazione di queste immagini può attivare un senso di colpa inconscio. Vediamo il dolore altrui e, in quanto esseri umani, sentiamo una responsabilità latente. Tuttavia, senza un'azione concreta, quel senso di colpa viene spesso "gestito" attraverso una sorta di catarsi passiva: condividiamo l'immagine, mettiamo un like, parliamo di quanto sia devastante. Ma queste azioni non cambiano la realtà del dolore. Anzi, possono persino permetterci di sentirci "meglio" senza aver fatto nulla di significativo.
L'Oltre: verso una consapevolezza attiva
Come rompere questo ciclo? La risposta non è semplice, ma potrebbe risiedere nella creazione di una consapevolezza attiva. Le immagini devono essere un punto di partenza, non di arrivo. Devono spingerci a fare domande, a cercare modi per intervenire, a mettere in discussione non solo il sistema che genera quel dolore, ma anche il nostro ruolo all'interno di esso.
La potenza di queste fotografie risiede nella loro capacità di farci riflettere, ma la vera sfida è portare quella riflessione nel mondo reale. Il dolore degli altri non può essere solo un'immagine: deve diventare un richiamo alla nostra responsabilità comune. Solo così possiamo trasformare l'empatia distante in un'azione significativa.
Torniamo ai quesiti di sopra e proviamo a metterci nei panni dell'osservatore medio così come risposta ad un post di Valerio Bispuri, professionista della fotografia sensibile, acuto e attento.
Cosa succede dopo quel momento?
Spesso, nulla. Passiamo oltre. Scorriamo. Scrolliamo. Perché l'architettura della comunicazione oggi è costruita sull'istantaneità. E se non ci fermiamo davvero, l'immagine perde forza, si consuma. La potenza iniziale si diluisce in una timeline.
È sufficiente osservare per provare empatia?
No. L'osservazione può attivare l'empatia, ma non la garantisce. L'empatia richiede tempo, profondità, disagio. Guardare davvero una foto, entrare nel suo profondo significato, farsi attraversare dall'opera, lasciarla entrare e domandarsi: "Che cosa dice di me? Di noi?"
O stiamo semplicemente consumando il dolore come un altro prodotto mediatico?
Qui si colpisce nel punto più vulnerabile. Il tallone di una cultura che spettacolarizza il trauma, che ci abitua al dolore come forma di intrattenimento emotivo. Piangiamo per un attimo, poi passiamo al video successivo. Il rischio è quello di diventare consumatori del dolore altrui, anestetizzati dall'eccesso di immagini forti. E "scrolliamo" avanti.
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