Fatima Hassouna: la voce di Gaza che non potranno mai silenziare

27.04.2025

Aveva ventiquattro anni. Viveva nell'est di Gaza City, sotto un cielo che da troppo tempo conosce soltanto il suono delle esplosioni e l'odore acre della polvere da sparo. Si chiamava Fatima Hassouna, ma chi la conosceva davvero la chiamava Fatem, con l'affetto che si riserva ai puri, a quelli che il dolore non riesce a corrompere.


Fatem era una fotoreporter. Non brandiva armi, non lanciava proclami: impugnava una macchina fotografica come un'arma sottile, capace di ferire l'indifferenza del mondo. Documentava la carestia, la paura, il coraggio testardo di chi rifiuta di morire in silenzio. Fotografava ciò che molti preferirebbero non vedere: l'agonia di un popolo cancellato a colpi di missili e di menzogne. 



Un giorno, dall'altra parte del mare, una regista iraniana, Sepideh Farsi, scelse di tendere un filo sottile ma resistente fino a lei. Iniziò una corrispondenza su Zoom: una finestra aperta sulla vita quotidiana a Gaza, che durò un anno. Ogni chiamata era una piccola resistenza, una confessione, una dichiarazione d'amore verso una terra martoriata. Quelle videochiamate sono diventate il cuore di un film-documentario, "Put your soul on your hand and walk".

Solo due giorni fa era arrivata la notizia: il film avrebbe avuto la sua prima mondiale a Cannes, nella sezione Acid dedicata ai cineasti indipendenti. Nella seconda foto che Sepideh ha condiviso, Fatem sorrideva, incredula, felice come chi intravede per la prima volta uno spiraglio di giustizia in un mondo senza pace.
Era tutto pronto perché potesse andare a Cannes, camminare sul tappeto rosso non come una star, ma come un testimone. Fatem, però, aveva già promesso: "Tornerò subito a Gaza. È questo che l'occupazione vuole, che ce ne andiamo. Noi dobbiamo restare."

Non farà in tempo a mantenere quella promessa.
Il giorno dopo quella telefonata, un bombardamento ha raso al suolo la sua casa. Fatem è morta insieme a dieci membri della sua famiglia.
Non è stata una tragica fatalità, né un errore di calcolo. Era un attacco mirato. Perché il coraggio fa paura. Perché la verità fa più paura delle bombe.
Perché un solo scatto di Fatem — più di mille proclami — poteva mostrare al mondo ciò che chi bombarda cerca disperatamente di occultare: il volto crudele di chi annienta, di chi stermina, di chi teme il giudizio della storia.

Prima di morire, Fatem aveva lasciato parole che oggi suonano come un testamento.


Se dovessi morire, vorrei che fosse una morte eclatante. Voglio che tutto il mondo sappia della mia morte. Voglio che abbia un impatto che non svanisca con il tempo. Voglio immagini che non possano essere sepolte nello spazio o nel tempo.



E sarà così, Fatem.
Non potrai essere sepolta nel silenzio. Non potrai essere cancellata dall'oblio.
Il tuo sorriso, le tue fotografie, la tua voce spezzata continueranno a camminare per noi. A raccontare quello che avremmo voluto ignorare. A ricordarci che anche nella distruzione più feroce, ci sono anime troppo luminose per essere spente davvero.

Hanno bombardato la tua casa.
Ma non hanno potuto bombardare il tuo coraggio.
Non hanno potuto bombardare la verità.

E finché ci sarà qualcuno che guarderà il mondo attraverso i tuoi occhi, Fatem, tu sarai viva.

Sempre.



Fatima

Tra le rovine sanguinanti
stringi al petto la tua verità,
macchina stanca, cuore indomito,
figlia del vento e della polvere.

Il tramonto incendia Gaza,
ma tu guardi oltre le macerie,
dove ancora un albero sfida
la furia degli uomini.

Dal tuo obiettivo sale una luce,
un filo sottile che intreccia le stelle,
un canto silenzioso
che nemmeno la morte può spegnere.

Hanno distrutto i muri,
hanno spento le voci,
ma non il seme
che hai gettato nel cielo.

Si può spezzare una voce,
ma non la verità che portava.


Aveva ventiquattro anni. Viveva nell'est di Gaza City, sotto un cielo che da troppo tempo conosce soltanto il suono delle esplosioni e l'odore acre della polvere da sparo. Si chiamava Fatima Hassouna, ma chi la conosceva davvero la chiamava Fatem, con l'affetto che si riserva ai puri, a quelli che il dolore non riesce a corrompere.